La guerra di mafia a Roma – inchiesta da Rassegna Sindacale

di Sebastiano Gulisano e Pietro Orsatti

Pubblicata il 25/01/2012 su Rassegna Sindacale (Rassegna.it)

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Trentasei omicidi in 13 mesi. In una capitale europea. Di cui almeno un terzo ricollegabili direttamente a conflitti fra organizzazioni mafiose. Gli altri, per pudore, continuano a essere considerati omicidi di serie b, ma gli stessi investigatori, a microfoni spenti, non li considerano più tali. Questo il dato più visibile e eclatante di quella che è, a tutti gli effetti, una guerra di mafia in corso a Roma per il controllo delle attività illecite.
La penetrazione – si dice ancora così per mitigare i dati da città ad alta densità mafiosa – non è in atto solo da oggi a Roma. Già negli anni ’50 Cosa nostra gestiva i primi colossali traffici di eroina verso gli Stati Uniti, facendo base in una serie di alberghi di lusso. Come del resto l’aeroporto di Fiumicino e il porto di Civitavecchia sono stati per decenni punti di interscambio delle rotte degli stupefacenti. Basta andarsi a rileggere la relazione della commissione Antimafia presieduta da Gerardo Chiaromente, del novembre 1991. E oggi si valuta che da Roma e dal Lazio transiti circa un quinto della cocaina destinata all’intero mercato europeo, cioè un giro d’affari di un miliardo di euro l’anno sui cinque complessivi del traffico continentale. Quindi la necessità della spartizione del controllo del territorio o, come sembra trasparire ora, delle attività.
«C’è il caso Primavalle che ci fa capire che c’è un’alleanza più complessa – spiega Gianni Ciotti, segretario romano del Silp Cgil –. Si  pensava che il traffico della cocaina fosse completamente in mano alla ’ndrangheta, ma ci si è resi conto, da alcuni sequestri, che la coca in vendita in quel quartiere ha la stessa confezione di quella di Napoli, quindi distribuita dalla camorra. E senza un accordo ciò non sarebbe stato possibile».
Per investigatori e inquirenti è certo che gli omicidi di mafia nella capitale siano da attribuire a questo patto fra le organizzazioni criminali del sud che stanno eliminando, nelle varie borgate, i boss emergenti che tentano di mettersi in proprio e i residui dell’ex Banda della Magliana che alzano la testa: «L’assenza di reazione la dice lunga sul tipo di conflitto – chiarisce un investigatore –, dice che non c’è nessuna nuova Banda della Magliana e che la paura impedisce qualsiasi reazione. Se ci fosse un’organizzazione romana forte e struttarata, come negli anni 80, la reazione ci sarebbe poiché altrimenti ne sarebbe minata la credibilità, il prestigio».
Libera, l’associazione di don Luigi Ciotti, ha definito il patto criminale su Roma “Quinta mafia”, ma di fatto è uno scenario presente da decenni e, comunque, aperto all’apporto di soggetti romani, come emerge da numerose inchieste. «Solo il clan dei Casamonica, l’unica cosca romana a cui sia stato applicato il 416 bis, il reato di associazione mafiosa, continua ad avere un solido radicamento nella zona sud della città – ci dice un investigatore – e a fare affari, unendo l’usura (Roma ne è da sempre la capitale, ndr) al traffico di cocaina, utilizzato come grimaldello per entrare in nuovi circuiti, soprattutto di professionisti. I clan dei nomadi hanno ormai fatto un salto di qualità e non mi stupirei se presto venisse fuori che gestiscono grosse attività commerciali», profetizza.
«Mafia ’ndrangheta e camorra hanno la necessità di espandersi, di uscire dai territori tradizionali e Roma – sottolinea Gianni Ciotti – è un luogo strategico, sia per i traffici illeciti sia per quelli leciti, per le attività legali da usare come paravento per il riciclaggio, situati in luoghi centrali, vicini ai centri del potere istituzionale».
Istituzioni. E politica. «Quello che lascia sconcertati – sottolinea Cosmo Bianchini segretario regionale del Silp Cgil – è che davanti a numeri e dati che non sono pubblici solo da oggi e un allarme che venne lanciato già nella relazione Chiaromonte del 1991, non si sia fatto quello che si poteva e doveva fare. Anzi: troppo spesso, interi settori politici hanno cercato di negare pubblicamente l’evidenza. Se oggi uno confronta la mappa disegnata dalla relazione del ’91 con l’attualità si scontrerà con una continuità impressionante di nomi, territori, famiglie». E il caso Fondi? Anche quello ha consentito l’attuale escalation a Roma? «È evidente che il tipo di alleanze fra sodalizi mafiosi si sia riproposto anche a Roma – prosegue Bianchini –. A Fondi si è giocata una partita nazionale: il governo Berlusconi ha impedito lo scioglimento del comune richiesto dal prefetto Frattasi e successivamente lo ha trasferito». Era in gioco, all’epoca, anche il rinnovo del consiglio regionale e Renata Polverini, grazie anche all’appoggio del potentissimo esponente pontino del Pdl Claudio Fazzone, aveva nella provincia di Latina uno dei suoi maggiori bacini elettorali. «Da due anni, e per ben dodici volte, abbiamo richiesto un incontro alla presidente della Regione per discutere di sicurezza – conclude Bianchini –. Ma non ci ha mai ricevuto. Mentre a Roma e in tutta la regione si continua a pensare che fare sicurezza sia intervenire su microcriminalità e gli “ultimi”, i senza tetto, i migranti etc, e non su traffico di stupefacenti, racket, riciclaggio e usura ad alti livelli».
Non solo Roma, dunque, terreno di affari delle mafie. Viterbo, Cassino, Frosinone, Civitavecchia hanno visto negli anni crescere la presenza di camorra e ’ndrangheta. E si delinea una mappa precisa: nell’area sud di Frosinone regnano i clan Canosa-Muzzone, i Casamonica, il clan Di Silvio. A Fondi la ‘ndrangheta della famiglia Tripodo, e il clan Casalesi in relazione, com’è emerso, con famiglie catanesi. Ad Aprilia le ’ndrine Alvaro e Strangio. Latina è dominata dai clan camorristici Ciarelli, Baldascini e Di Silvio. Ancora i Casalesi insieme alla famiglia Bardellino a Formia e Minturno. E emerge il dato che oltre a traffici e racket investano in imprese e, soprattutto, in beni immobiliari. Per dare una dimensione del volume di affari basta fare l’esempio della mole di beni sequestrati. Per esempio, nel 2011 solo nella provincia di Latina sono stati confiscati lo scorso anno 42 tra palazzi e costruzioni di altro tipo. Nel Lazio sono circa 400 i beni sequestrati (per un valore di svariati miliardi di euro), un dato simile a quello lombardo e superiore alle regioni meridionali.
Soldi, quindi, e affari non solo derivati dai traffici illeciti. La droga e il racket producono fiumi di denaro reinvestiti in tutta la regione, soprattutto nella capitale. Nel tessuto produttivo sano, che appena penetrato cambia connotazione. Dalla grande distribuzione agroalimentare agli appalti alle grandi opere. Sempre più interesse, infine, ricopre il nuovo “oro”, lo smaltimento dei rifiuti.

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Le mafie straniere nella capitale

Quei sedicimila euro buttati in un casale abbandonato nella zona del Pigneto a Roma, bottino della rapina finita con un duplice omicidio nel popolare quartiere di Torpignattara, raccontano una storia del tutto diversa da quella che ci è stata offerta dalla cronaca delle ultime settimane. Ci raccontano di una comunità, quella cinese, composta da decine di migliaia di persone e centinaia di piccole e grandi attività imprenditoriali. Con guadagni dichiarati e no. Con un controllo capillare e attività in parte di riciclaggio e in parte di investimento da parte delle potentissime famiglie della mafia orientale. Perché di questa rapina non avremmo saputo nulla se non ci fossero stati dei morti. Perché di assalti di quel genere se ne verificano quotidianamente a Roma, quasi sempre attuati da nordafricani anche loro organizzati in bande che assumono di giorno in giorno connotazioni “organizzate”. Perché i cinesi girano spesso con ingenti somme “non dichiarate” e “non rintracciabili” di contanti. E soprattutto non denunciano, perché quelle somme e quei movimenti non possono essere raccontati alle autorità italiane.

Le mafie straniere a Roma sono radicate e strutturate da anni. In particolare quella cinese che si è ben inserita negli investimenti immobiliari sia a uso civile che commerciale. Ma non mancano le strutture claniche, in ritiro negli ultimi anni, della mafia albanese storicamente legate al traffico delle droghe derivate dalla cannabis e le organizzazioni tunisine e marocchine dedite alla commercializzazione al dettaglio di ogni tipo di sostanza con collegamenti stretti con sodalizi nostrani come la camorra e la ‘ndrangheta.

Nonostante il recente allarme da parte del Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso sulla penetrazione delle potenti famiglie russe non si segnalerebbe finora una presenza significativa sul territorio capitolino paragonabile, ad esempio, a quella del nord est del Paese. Questo, però, non escluderebbe che ci sia in atto una serie di operazioni collegabili al mercato immobiliare associate a soggetti collegati a queste famiglie.

L’allarme, però, sta crescendo invece per la potente e feroce mafia nigeriana, da anni presente e attiva ad esempio nel sud del Lazio e nella provincia di Caserta e che con i Casalesi è arrivata più di una volta a attriti anche con fatti sangue. Una mafia, quella africana, dedita a un duplice traffico parallelo: droga e esseri umani. Un ruolo, quello dei trafficanti africani, del tutto simile a quello detenuto dai clan marsigliesi dal dopoguerra alla fine degli anni ’60 nella gestione delle rotte del traffico dell’eroina e della morfina a livello internazionale e del contrabbando di tabacchi.

p.o.

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Storia/ La banda della Magliana

“Emo’ ce pijamo Roma” disse “er Negro”, e così fu. E per una decina d’anni la capitale fu “cosa loro”. Tutto ebbe inizio sul finire del 1977 con un furto d’auto subito da Franco Giuseppucci detto “er Negro”, un malavitoso trentenne della Magliana, considerato l’armiere dei criminali romani per conto dei quali custodiva le armi in una roulotte di sua proprietà parcheggiata al Gianicolo. Quel giorno, nel
bagagliaio del suo Maggiolone c’era giusto una borsa piana d’armi del suo amico “Renatino”, al secolo Enrico De Pedis, giovane e rampante
rapinatore trasteverino. Er Negro riuscì a risalire al ladro il quale, intanto, si era disfatto delle armi vendendole a una “batteria” di stanza alla Magliana, capeggiata da Maurizio Abbatino detto “Crispino”. L’incontro Giuseppucci-Abbatino si concluse con un’alleanza, estesa a De Pedis e al suo gruppo di Testaccio-Trastevere di cui, fra gli altri, faceva parte Danilo Abbruciati, già attivo col clan dei Marsigliesi che, proprio da Roma, aveva realizzato numerosi sequestri di persona a scopo d’estorsione, finché nella primavera del 1976 i capi non furono individuati, arrestati,
condannati e uccisi in carcere.
La storia criminale della Banda della Magliana inizia proprio con
un sequestro di persona, lunedì 7 novembre 1977, a cui partecipano anche la batteria di Acilia-Ostia, capeggiata dall’allora latitante Nicolino Selis, e un gruppo criminale di Montespaccato. Il rapito è il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, per il cui rilascio i familiari pagano due miliardi di lire (sui dieci richiesti inizialmente), ma l’ostaggio sarà ucciso perché ha riconosciuto uno dei sequestratori. Liquidata la parte spettante ai delinquenti di Montespaccato, gli altri decidono di non spartirsi il bottino di ma mettersi insieme stabilmente e di investire il denaro nel traffico di droga con l’intento, appunto, di “prenderci Roma” come enunciato da
Giuseppucci. Nasce così la holding criminale conosciuta come Banda della Magliana, tornata alla ribalta negli anni scorsi grazie al fortunato Romanzo criminale del giudicescrittore Giancarlo De Cataldo, al film e alle fiction che dal libro sono scaturiti.
Er Negro e gli altri si impongono eliminando tutti coloro che tentano di ostacolarne l’espansione, disseminando la città di cadaveri, monopolizzando il traffico di droga e ricavandone cifre esorbitanti riciclate e reimmesse nei circuiti legali attraverso Domenico Balducci e Enrico Nicoletti. Soldi di cui si sono perse le tracce.
È giudiziariamente documentata la presenza della Banda in molti dei “misteri italiani”, dal caso Moro alla scomparsa di Emanuela Orlandi, così come sono documentati i rapporti dei suoi membri con i servizi segreti dell’epoca (egemonizzati dalla loggia P2), con la banca vaticana – lo Ior –, con autorevoli ambienti giudiziari andreottiani, con i terroristi neofascisti dei Nar (Massimo Carminati, “il Nero” di
Romanzo criminale), con l’“ambasciatore” di Cosa Nostra siciliana a Roma, Pippo Calò, la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo (tramite Nicolino Selis). Legami e coperture così palesi che l’ex magistrato bolognese Libero Mancuso, nella prefazione al libro La Banda della Magliana (di Gianni Flamini, Kaos Edizioni, 1994), definisce l’associazione criminale “una potente agenzia mercenaria prosperata grazie alle coperture dei servizi segreti piduisti, e degli ambienti massonici, politici e economici, i quali l’hanno utilizzata ogni qualvolta se ne sia presentata la necessità”. Finché non è più servita ed è stata sgominata, sul finire degli anni 80.

s.g.

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Campagna Legalità della Cgil

Contrastare e sconfiggere le mafie richiede il superamento della “teoria dei due tempi” – prima battere le mafie con le forze di polizia e, dopo, intervenire con riforme economiche, sociali e culturali –, intervenendo contestualmente con le forze di polizia ed eliminando «le precondizioni che favoriscono il radicarsi della criminalità attraverso situazioni di sottosviluppo economico, sociale, civile». Era questo il metodo indicato, lo scorso luglio, da Susanna Camusso presentando la “Campagna per la legalità” che la Cgil ha lanciato, su scala nazionale. Ed è questo che oggi, a distanza di sei mesi, ribadisce Claudio Di Berardino, segretario generale Cgil di Roma e Lazio.

Una campagna di cui saranno tirate le somme durante il prossimo aprile, con un’incontro pubblico nella capitale. «Nel Lazio – racconta Di Berardino – abbiamo già fatto iniziative e incontri a Rieti e Latina, mentre sono in fase di preparazione analoghi appuntamenti a Viterbo e Pomezia: la nostra è una campagna di ascolti dei territori e delle categorie da cui scaturirà una vertenza su legalità e sicurezza. E quando dico sicurezza – precisa – non penso solo all’ordine pubblico, ma soprattutto al tema sociale, che richiede politiche di sviluppo, di inclusione, di recupero delle periferie, di cultura della legalità nelle scuole. Quando dico sicurezza – insiste il segretario della Cgil Lazio – penso al lavoro e alle politiche abitative».

Ma sicurezza significa anche ordine pubblico e, su questo versante, Di Berardino ricorda i tagli progressivi apportati al settore dal governo Berlusconi e sottolinea come a Roma, fra l’altro, esista un problema di «razionalizzazione delle risorse: in centro trovi caserme di carabinieri e polizia anche a distanza di poche centinaia di metri, mentre nelle periferie, dove sono altrettanto importanti, quasi non se ne trovano».

Per contrastare la presenza criminale nel Lazio, il segretario della Cgil invoca gli interventi mirati di Governo, Regione e Roma Capitale, intervenendo efficacemente sulla pianificazione territoriale, sui piani regolatori, sugli appalti. E quando gli chiediamo se con il Governo Monti ha notato qualche inversione di tendenza, risponde: «Finora ci sono stati annunci, aspettiamo fiduciosi che seguano fatti rapidi all’insegna della discontinuità, incentrati sulla legalità come leva per rifondare il modello di sviluppo».
Il rischio, se non dovessero arrivare misure adeguate, è quello paventato nella parte introduttiva del documento che detta le linee della “Campagna per la legalità”: «Uno sbocco autoritario nel governo del Paese». L’allarme muove dalla «ipoteca sulla crescita presente e futura» rappresentata dall’economia criminale (60 miliardi di euro nel 2010, secondo le stime della Corte dei Conti, che ha previsto un incremento del 30% nel 2011); il Censis, nel 2000, definiva zavorramento il peso delle mafie al Sud, un recente studio di Bankitalia lo quantifica nel 15 per cento del Pil.

s.g. p.o.