Una foto del 74 che sembra oggi. I palazzinari, gli affari, le mafie e la disperazione

Sgombero a S. Basilio 1974 Tano D'AMICO

Una foto di Tano D’Amico, anno 1974. Sgombero di case occupate nel quartiere San Basilio a Roma, una donna incinta portata via da due poliziotti. Quarant’anni e ti ritrovi davanti uno scatto che sembra storia di oggi. Anzi, è oggi.

Guardiamo indietro a quell’anno. Da due anni si era insediato a Roma Pippo Calò, ambasciatore plenipotenziario di Cosa nostra nella capitale. Facendo accordi e affari con i cravattari, la nascente Banda della Magliana, pezzi deviati degli apparti dello Stato, la P2, speculatori immobiliari e finanziari e qualche non marginale palazzinaro. E con ambienti politici che andavano dall’eversione nera fino a pezzi di forze di governo, Preparava, Pippo Calò, l’invasione della “roba”, il grande boom dell’eroina, gestiva soldi e affari, si faceva aprire linee di credito in prestigiosi istituti bancari sotto falso nome e ovviamente senza alcuna garanzia. Già c’erano nella capitale  i De Stefano da Reggio Calabria con rapporti con gli stessi ambienti massonici e dell’eversione nera. Già c’erano i camorristi napoletani. Gli anni  della strategia delle tensione e della massima offensiva espansiva delle mafie. Così simili a oggi.

E come oggi allora il problema sicurezza erano i disperati senza casa che andavano a occupare edifici abbandonati.

Deviare attenzione, non disturbare gli affari.

Qualche settimana fa durante una presentazione del libro “Grande Raccordo Criminale” che ho scritto con Floriana Bulfon a un certo punto una domanda pesante è piombata nel dibattito: “è possibile governare Roma senza fare i conti co i palazzinari?”.

Una risposta c’è. Ed è no.

Per la piega che politica e storia (e potere) hanno dato a Roma, non è possibile evitare di scendere a patti.

E allora sgomberi e non inchieste sulle aziende, e allora manganellate sui fotografi e non controlli sugli appalti….

Torna Pippo Calò. Zu Pippo. Pagine scritte e ignorate.

Ed è in questa Roma che ancora si compiace dell’illu-
sione della Dolce Vita e che già vede arrivare le ombre
degli anni di piombo che sbarca zu Pippo, per conto delle
famiglie di Palermo, di Stefano Bontate e degli Inzerillo,
con tanto di tesoretto di “don” Vito Ciancimino l’uomo
del “sacco” di Palermo, già assessore ai lavori pubblici e
poi sindaco, da reinvestire e placet da parte di Salvo Lima
e dell’ampia famiglia degli andreottiani di Palermo. Zu
Pippo che si affretta a cambiare il nome in Mario Aglia-
loro. Per i suoi “don Mario il siciliano”. Cassiere e am-
basciatore di Cosa nostra, in grado di imporre con la sua
presenza tattica e metodo nello scenario frammentato dei
vari protagonisti del grande salto negli anni della strate-
gia della tensione.
Fin dal suo arrivo nella Capitale smuove quantitativi
di denaro impressionanti. Si spaccia come un generale
dell’Arma in pensione, ottiene mutui da prestigiosi isti-
tuti bancari senza offrire apparenti garanzie, ricicla nel
mattone e in attività commerciali i proventi del traffico
dell’eroina. E incontra esponenti della criminalità orga-
nizzata capitolina, a partire da Danilo Abbruciati e En-
rico De Pedis. E poi Domenico “Memmo” Balducci che
vende elettrodomestici in un negozio a Campo de’ Fiori,
ma che tutti conoscono come usuraio, del resto lui non
lo nasconde, tanto da appendere in bella mostra all’in-
gresso della sua bottega il cartello «qui si vendono sol-
di». E ancora si mette a fare affari con Danilo Sbarra,
costruttore ed usuraio.
Stringe rapporti “don Mario il siciliano” e apre la colla-
borazione che di giorno in giorno si farà sempre più stret-
ta con la “batteria” dei Testaccini, grazie all’amicizia con
Abbruciati, che già aveva fatto il suo esordio criminale
con i marsigliesi prima di trasformarsi in uno dei pila-
stri della banda della Magliana. I Testaccini che fino alla
morte di De Pedis, nel febbraio del 1990, sono i veri capi
della Banda, chiamati dagli altri malavitosi capitolini “i
mafiosi”, proprio per gli stretti rapporti con Calò e con i
siciliani.
Il delegato inviato da Cosa nostra si è fatto un suo eser-
cito e lo userà ripetutamente, lo rifornirà di droga da piaz-
zare sul mercato romano e i suoi esponenti si troveranno
sempre più coinvolti in un’ascesa irrefrenabile. Scompare
la “mala”. Nasce l’organizzazione di stampo mafioso.
È solo l’inizio. Perché a zu Pippo non basta avere un
esercito e vuole aprire altre porte. Non tarda a far cono-
scenza con i personaggi giusti: il curatore di grandi patri-
moni italo-svizzero Fiorenzo Ravello, alias Florence Ley
Ravello, e un ex discografico che ha scelto di dedicarsi
alla compravendita di terreni edificabili, Flavio Carboni.
Occhi vispi e modi affabili, Carboni è stato coinvolto in
tanti oscuri intrighi italiani. Amico del Gran Maestro del-
la loggia P2 Licio Gelli e dell’agente segreto Francesco Pa-
zienza, in affari con Silvio Berlusconi, capace di scambiar
favori con Marcello Dell’Utri, il faccendiere sardo, ormai
ottantunenne, è stato accusato di vari crimini, dal concor-
so nell’omicidio di Roberto Calvi fino alla costituzione
della nuova P3 e della P4. «Sempre assolto», ripete lui.
Tranne che per concorso nel fallimento del Banco Ambro-
siano. E con Calò, stando alle ammissioni di molti pentiti,
Carboni fece imponenti operazioni finanziarie e immo-
biliari, come l’acquisto e la lottizzazione di Punta Volpe
in Sardegna, la realizzazione del porto turistico di Porto
Rotondo e il progetto di risanamento del centro storico di
Siracusa. Con Calò e i soldi di Cosa nostra.

Da “Grande Raccordo Criminale” di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti Imprimatur editore 2014

Chissà come si chiama lo zu Pippo del terzo millennio.

 

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