Chi non riesce a fare i conti con la Storia (e la strategia della tensione)

Ben tornati negli anni della strategia della tensione. Vi sono mancati? Se è così, ieri a Bologna è stato portato indietro l’orologio della Storia di decenni. A me che, giovanissimo, quegli anni li ho vissuti e non mi mancavano per nulla. La mia generazione è stata segnata dalla paura. Pensate che sia un’esagerazione? A Roma, dove sono cresciuto, bisognava fare piani ben precisi per muoversi semplicemente per la città; bastava un niente e ti trovavi sul marciapiede pestato a sangue in mezzo alla folla solo perché a tracolla avevi la borsa o un paio di scarpe sbagliati, oppure accoltellato di sera mentre tornavi a casa dopo un concerto o macellato davanti ai propri genitori legati a un termosifone perché cercavi, con la politica, di impedire la diffusione dell’eroina nel quartiere come è successo davvero a Valerio Verbano. Io quegli anni li ho vissuti, nel quotidiano, e non penso che mi abbiano formato, credo invece di essere stato derubato della leggerezza che un adolescente deve vivere. Li rivendico, come un reduce che si è trovato in trincea per costrizione e che averebbe voluto fare tutt’altro ma ha passato gli anni della propria formazione a farsi conti del genere per pura e semplice sopravvivenza.

Chi si ricorda Roma di quegli anni? La “roba” che si sbranava una generazione, il timore di uscire la sera fosse solo per andare dietro casa a prendere un gelato, ché fra bande criminali e mafiose in eterno e conclamato conflitto armato e agguati a “chi capita” era un bel lavoro di logistica della sopravvivenza tirare avanti e cercare di avere una vita normale. La ricordo come fosse ieri l’ansia negli occhi di mia madre quando uscivo dopo cena per tirar quattro calci a un pallone in piazzetta e il suo sollievo quando rientravo. Poi uno si domanda perché fossimo così politicizzati già a sedici anni, così svegli da capire quasi sempre dove e come stavano per scoppiare casini. Si guardavano le facce, i movimenti di un gruppo di “stranieri” in vespone, ci si girava sempre e di scatto quando uno che non conoscevi entrava nel bar. Per andare a scuola si seguivano itinerari precisi, collaudati, ché a volte ti ritrovavi al pronto soccorso solo per aver cambiato marciapiede per salutare qualcuno. La prima volta che le ho prese stavo comprando i libri di scuola a piazza Risorgimento che lì si compravano e scambiavano i volumi usati. Per il giornale che avevo in tasca de jeans, e non parlo di chissà quale testata rivoluzionaria, che so “il manifesto” o “Lotta Continua”, ma Paese Sera.

Se non fosse bastato crescere in una famiglia che il fascismo nella bassa emiliana lo aveva già prima della presa del potere di Mussolini, il resto lo ha fatto vivere quegli anni lì. A Roma. Negli anni ‘70 e ‘80.

Ricordo esattamente dove e come ho saputo della strage di Bologna, il terrore che per ore attraversò la mia famiglia, con mio fratello, militare non ricordo se in Friuli o in Veneto, che scendeva a casa per la sua prima licenza. Non c’erano i telefoni cellulari all’epoca per rassicurare mia madre bianca come un cadavere che seguiva la diretta in televisione e alla radio. Faceva un caldo terribile in quella cucina, il silenzio di quella donna e di mia nonna, le lacrime silenziose quando mio fratello riuscì a telefonare. Ricordo tutto. Il mio primo giorno alle superiori sfregiato dall’omicidio di Walter Rossi. E ricordo quella manifestazione l’anno precedente dove non ci dovevo essere – ma c’ero all’insaputa dei mie – e quel ponte dove passai solo pochi minuti prima che uccidessero Giorgiana Masi. Quel ponte dove, se sono a Roma, passo a posarvi un fiore. Ora, anche quest’anno, il 12 maggio.

Ricordo i giorni del rapimento di Aldo Moro, la città deserta, militarizzata e come e con quale velocità tutto fu ricondotto a una sorta di normalità armata dopo la sua morte. Scoprire poi da atti di un processo civile sullo stesso pianerottolo dell’appartamento di via Gradoli a Roma dove era tenuto prigioniero il presidente della DC abitava nello stesso periodo in cui Lucia Mokbel viveva alla porta accanto alla prigione di Moro. Lucia – sorella di Gennaro ex attivista dell’area eversiva nera capitolina a Roma, protagonista e condannato nel processo Telecom Serbia, ucciso non troppo tempo fa nella sua abitazione – che già all’epoca del rapimento di Aldo Moro aveva un rapporto mai chiarito del tutto con i servizi. E di come

E ricordo Petroselli e come quel PCI, che dalle borgate aveva riconquistato la città, riuscì a a far rinascere la Capitale con una semplice idea. Riprendiamoci la notte, l’estate, la voglia di stare insieme. L’Estate Romana è stata la dimostrazione di come la cultura quando si fa popolare cambia il volto di una città possa cambiare. Quel PCI che non ha mai avuto ambiguità non solo nel condannare ma nell’opporsi al terrorismo delle BR pagando un prezzo pesantissimo come nel caso dell’omicidio del sindacalista Guido Rossa nel ‘79.

Anni del genere non li auguro a nessuno.

Ma arriviamo a oggi e a quello che sta cercando di fare la maggioranza guidata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La sua assenza alla commemorazione è di una gravità inimmaginabile non solo semplice cattiva gestione dell’agenda di chi guida il Paese, ma una sorta di sfida a chi pretende verità e giustizia sugli anni del terrore, delle stragi, dei troppi lutti subiti da questo Paese.

L’orologio della storia di questo Paese è stato bruscamente portato indietro di decenni, con una messinscena fin troppo efficace e capillare. Davanti a sentenze definitive si cerca di riscrivere per via parlamentare – nato grazie alla peggior legge elettorale della storia della Repubblica – la storia di un processo durato decenni con un intervento molto più che irrituale della politica sul potere giudiziario. E in che modo? Tirando fuori i palestinesi con tanto di proposta di una commissione di inchiesta (non di capisce ancora se bicamerale o no) che vada a ricercare un’altra verità che vada a scalzare quella ottenuta grazie a decenni di indagini e processi.

L’ennesimo depistaggio per non ammettere che fu una strage fascista? L’impossibilità della premier e dei suoi di accettare che arrivato il momento di tagliare i fili che legano la destra italiana a un passato che per il resto del paese si è concluso il 25 aprile 1945? Oppure, e qui c’è da rabbrividire, si cerca di non recidere legami che dovrebbero essere stati recisi da più di mezzo secolo.

Questa sembra essere la scelta della destra e della Meloni e rischia di spezzare in due il Paese con ricadute gravi ed imprevedibili che potrebbero segnare per decenni la vita di tutti noi per decenni.

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