I camminanti

Renato riaprì la bocca, in un altro immenso sbadiglio, lungo, infinito, soddisfatto, feroce.

Pier Paolo Pasolini, sceneggiatura di Accattone

Solcano la realtà, leggermente di lato, attraversando una sorta di spazio indistinto che segna e divide la città eterna, fuori fuoco, ai margini dell’inquadratura, talmente irrilevanti da non attirare lo sguardo, confondendosi sullo sfondo. Meno di comparse, invisibili in piena vista. Camminanti. Ombre, voci lontane e indistinte, sguardi che si incrociano solo per un istante e poi niente, scompaiono. Non ci sono più. Vanishing act. Un gioco di prestigio, un trucco, uno scherzo del destino o la somma di tanti errori e casi fortuiti così irrilevanti da trasformarsi, sommandosi, in tragedia.

Una città che si rivela trappola per topi, anche se non ci sono ratti, ma esseri umani a dar vita allo spettacolo che va in scena ogni giorno che il destino ci fa precipitare sulla testa. Per la brava gente che popola questo Paese così pio e feroce rimangono solo un intralcio fastidioso, quasi offensivo e soprattutto incomprensibile. Ma a calpestare il palcoscenico sono uomini; non ratti o fantasmi, ma creature senzienti, con le loro storie belle e terribili e desideri e emozioni che, dondolando per la stanchezza e il peso della propria intera esistenza riposto in uno zaino, scivolano via; i passi segnano itinerari invisibili dettati solo da pura e semplice sopravvivenza o da un pudore incomprensibile quando tutto quello che ti rimane addosso è solo la fame o la paura. Ma poco importa, ché non c’è il tempo di metabolizzare anche un accenno di senso di colpa. Non sia mai, signora mia, che spaventino il cane quando piscia contro una tenda montata sotto un porticato, povera bestia, che è tanto sensibile.

Roma, ecco il teatro di posa. Le zoccole de’ fiume, simbolo della città come e spesso più del Colosseo o del Cupolone, pasteggiano nella monnezza e si godono la fogna e il sole indisturbate, raggiungono un tombino per cacciarvisi dentro, sfacciate, grasse dell’enormità di una città che l’abbondanza ha trasformato in discarica e la discarica in polis. Poi, a contendere il dono dell’incuria anche da un’eternità si sono fatte largo le sorche con le ali, come si conviene a qualsiasi discarica che si rispetti: i gabbiani che hanno dimenticato il mare e invadono la città con ferocia e candore, cacciando via dal banchetto perfino le cornacchie, che son tremende, quelle, ché son nere e feroci mentre i gabbiani sono così eleganti da non far paura a nessuno, anche se dovrebbero ché della cloaca e della lebbra che sembra mangiarsi la città di cui ormai sono padroni.

Invisibili gli uomini, invece, anche quando sono in piena vista come ora; gli instancabili camminanti marciano lenti e traballanti, si confondono, ché la mimesi non è un vezzo, ma strategia di sopravvivenza indispensabile e maledetta; confondersi fra turisti e autoctoni fin troppo distratti e saturi di benessere, presunto più che concreto, per dare atto e senso a ciò che li circonda. Non a sé stessi, ma al panorama, ché non sia mai che emerga lo status reale di una Capitale millenaria trasformata nel sudario di un lebbroso.

Sto camminando su una linea. Sto pensando al movimento a vuoto. Sto camminando su una linea. Appena abbastanza per essere vivi1Case in movimento, il mio corpo è la mia casa, E non c’è altro.

Rotte invisibili che si impongono alla memoria, che mai nessuno sano di mente seguirebbe perché motivate non da reale necessità, ma dal desiderio di sparire in piena vista. Nessuno le segna su una mappa quelle traiettorie, ma esistono, son lì indelebili nella loro invisibilità come fili di seta di una tela di ragno. Chi le conosce sopravvive, chi le ignora o ha perso la memoria o la testa e muore, perché la sopravvivenza è nel camminare lungo percorsi ben definiti dalla dittatura della fame, della solitudine e dell’imposta tolleranza che, anche quella, è una truffa perché se si è irrilevanti per se stessi e per chi vive la propria vita in piena luce, non è altrettanto vero per chi della miseria ha fatto tesoro: potere politico e ricchezza elevando la povertà e l’abbandono a sommo sacrificio salvifico per chi di sacrifici non ne ha fatti mai.

La povertà è un affare di dimensioni inimmaginabili, una vera e propria industria si è creata attorno ai principi della carità e della solidarietà. Quanto costa e produce la mastodontica macchina della carità? E quanto e come viene distribuita quella ricchezza? Quanto di queste enormi risorse viene eroso dagli innumerevoli passaggi fra il raccogliere e il dare?

Idee, aspettative, sogni, vita, cose che non possono essere rimosse e poste nel magazzino delle cose inutili scivolano via, ed è allora che ci si aggrappa a minutaglie, piccoli oggetti che puoi tenere in tasca o frammenti di carta in un vecchio portafoglio. Anche se apparentemente irrisorie sono quelle le cose più importanti e fondamentali; come il mangiare o cagare, dormire, mangiare ancora e ancora, con i giorni che si confondono tutti uguali, ché i percorsi, i sentieri, le reti, gli intrecci sono sempre gli stessi, perché non bisogna sgarrare, non si deve perdere il ritmo. Sveglia, un caffè se c’è, lavarsi alla meno peggio e uscire e bar sempre che ti ritrovi due spicci in tasca, poi altro spostamento dove poterti fare una doccia o fare il bucato e la fila e i minuti che non bastano ché son pochi e il sapone negli occhi e l’asciugamano di carta non asciuga, ma non importa, bisogna fare in fretta, una sciacquatina e via ché dove dormi non c’è mai abbastanza acqua per tutti e tanto meno una doccia e non bisogna lamentarsi ché già è tanto avere un cubicolo di un metro e novanta di larghezza e poco più – a essere ottimisti – di lunghezza, senza porta o un cassetto chiuso a chiave, un posto dove dovrebbe essere possibile, ma non è, tener da conto le cose alle quali ci si aggrappa per non impazzire, che possono essere le più disparate e impreviste, come una lettera, un libro, un oggetto qualunque, perfino un giocattolo da bambino, un pezzo di stoffa e un barattolino con aghi, filo e bottoni.

Poi, ancora, in piedi e fuori, con qualsiasi tempo e in qualsiasi condizione tu sia; «muoversi!», che bisogna uscire, bisogna chiudere, bisogna affrettarsi che si rischia quel che non si dice mai, ma è sotteso, scritto con l’inchiostro simpatico: ritrovarti, se sgarri, nuovamente per strada in pieno inverno; e allora chini la testa non come atto di umiltà, ma per paura sacrosanta e motivata. Perché la strada ti uccide mentre la carità ti svuota. E allora, facendo finta di essere “normali”, via dondolando o di corsa giù lungo la strada per allontanarsi in fretta ché nessuno si renda conto che dentro quella chiesa sconsacrata dormono degli esseri umani. Uomini. Camminanti, che se ai loro piedi venisse attaccata un qualcosa, un accrocco da due soldi come una dinamo, sarebbe risolta in un lampo la crisi energetica mondiale.

E allora che fa? Famose du passi. Ma si, stringersi nei giacconi e disperdersi ognuno con la sua rotta, per prendere un altro caffè, vero questa volta ché il primo della giornata è istantaneo e scava le pareti dello stomaco e brucia e non sveglia niente e nessuno se non la bile che risale appena se ne sente l’odore, come se fossero una cosa sola, l’afrore e la nausea, che divisi all’origine corrono a ricongiungersi nel risalire dell’acido che ferisce e scava la gola e mozza il fiato impedendo di ragionare, progettare, sognare e vivere di cose minime e irrisorie, come i sentimenti, che sono accessori destinati ad altri tempi, altri uomini, altre vite.

Finalmente fuori, nel gelo, nella guazza lurida che avvolge la Capitale d’Italia e della Chiesa Santa e Pietosa e Crudele, come l’Inquisizione dei bei tempi passati, ché forse non prevede più la forca o il rogo, ma lo stigma sì e il dubbio della colpa, perlopiù presunta, del fallimento e del dolo a far da contorno e condimento. Ah, la Chiesa, che è santa e maledetta, immacolata e puttana, meravigliosa e spettacolare nei suoi riti e nel suo possesso. Tutto e niente, fratè. Prendi e accendi una sigaretta scroccata per strada e respiri. Il piacere doloroso della prima tirata e via, altri chilometri e cenni di saluto agli altri camminanti, che si rendono al contrario di te ben visibili ché se ne fottono di essere panorama e comprimari del declino dell’italica discarica eterna di idee e arte e cultura e bellezza e merda.

Sono una folla impalpabile e molesta, i camminanti, oscena imitazione di esseri umani. Loro, prigionieri della propria invisibilità sociale, vanno avanti e indietro da una sponda all’altra del fiume. Liberi solo di decidere se vivere o morire. Contemporaneamente, sono proprio loro i veri e unici proprietari dell’urbe, ne conoscono ogni angolo, taglio di luce, fetore e gioia di un miracolo di bellezza incomprensibile e talmente aliena da diventare segreta, privata anche se assoluta.

Ecco, li vedi? Li vedete, ora? Camminanti prigionieri del ciclo di movimenti e tempi e riti necessari per sopravvivere un giorno in più. Uno e basta? E come? A quale prezzo?

Quando ti dicono che tutto è gratuito la merce sei tu; consapevolmente o meno, è parte e fondamenta del patto, la clausola scritta in piccolo in basso nel contratto. La vedete? No? Si, bisogna avere occhi allenati per leggerla anche dotandosi di lente di ingrandimento. Ma c’è, non è possibile negarla, è talmente evidente da esser rimossa dalla narrazione perché scontata.

Camminanti, sì, che cercano di evadere, liberarsi dal proprio stato di essere due volte vittime, di ritrovare una dimensione umana persa per il semplice fatto di non essere più in grado di sopravvivere senza aiuto; per innumerevoli ragioni che in gran parte non potrebbero e dovrebbero essere definite delle colpe.

Poi gli arresi, quelli che accettano lo scambio, si adeguano al ruolo, si trasformano nel luogo comune del barbone un po’ buffone e un po’ corpo marcescente, in ogni caso supplice ché la miseria ha bisogno di essere esposta per soddisfare il bisogno narcisistico dei donatori che non donano nulla se non quello che dovrebbe essere dovuto a ogni essere umano: la possibilità di vivere e di riemergere e riscattarsi quando si cade. La libertà di decidere, anche, di morire. Alimentare la presunzione di caritas in cambio della propria animale visibile necessità di sopravvivenza: questa la strategia, di tutti, che poi ognuno modula secondo proprio gusto a richiesta: il ringraziamento che deve per forza esprimersi attraverso una sorta di pietosa pubblica richiesta di aiuto, per la concessione di un giorno in più di vita.

Colpevoli di non si sa ché, ma colpevoli comunque: lo diventano nella percezione e negli occhi perfino di chi ha deciso di aiutarli. Il dono di una necessità primaria è ancora un dono? Oppure si tratta di un modo di definire ulteriori e ben meno chiari equilibri di potere nei rapporti umani di questa diseguale società? Mettersi dalla parte degli ultimi rimanendo fermamente aggrappati al proprio mondo è già porsi nel punto di osservazione sbagliato. Io sono io e ti aiuto e tu sei meno di me perché non sei stato in grado di tenerti ben stretta cosa? La vita, i soldi, la fortuna, la furbizia, i patrimoni reali o effimeri messi insieme da chi e come non importa?

In cosa si trasforma fin troppo spesso il dono? In Istituzioni totali camuffate da opere di bene. Anzi, peggio. Invasive e giudicanti, come il carcere e i manicomi criminali o meno che la legge ha cancellato, ma solo apparentemente, ché sono nello spirito di cosa li ha sostituiti e da lì si rinnovano e riproducono.

Camminanti senza un privato se non nel cammino. Muoversi in quelle poche e interminabili ore di libertà dai dormitori, dalle strutture pubbliche e private di “aiuto” per allontanarsi anche per poco dai vincoli, dalla disapprovazione immotivata, dagli equivoci innumerevoli e feroci provocati solo da un atteggiamento fetente di sospetto continuo nei confronti di chi si intende e spesso pretende aiutare. O da pura e semplice crudeltà. Sono degli ingrati questi irriverenti camminanti a pensarla così? Perché non parlano chiaro questi poveracci di merda, incapaci perfino di pulirsi il culo da soli? Che hanno nella testa? Chi si credono di essere?

Basterebbe così poco, ma il poco è già un orizzonte irraggiungibile.

Quanto è complicato ascoltare chi si pretende aiutare perché è un grande affare la povertà e quanto fa comodo la miseria che è come un cartellone pubblicitario piantato al lato della strada. Perché attorno alla parola “aiuto” c’è un intero mondo di interessi, certo non spirituali e caritatevoli, ma terreni e innominabili. Una montagna di soldi frutto di donazioni, finanziamenti pubblici e privati, fino a scivolare nell’abiezione di chi crea ricchezza e potere politico grazie alla miseria altrui. Contributi mirabilmente terreni: denaro, immobili, lasciti e soprattutto potere, reale. Quanto del denaro destinato ai poveri arriva davvero nelle mani di chi dovrebbe essere titolare di quegli aiuti? Quanto, invece, si ferma nelle tasche di chi fa da intermediario, da erogatore del servizio, da stratega di politiche di redistribuzione delle risorse. Una gigantesca macchina costruita per erodere il capitale iniziale in un’architettura piramidale dove il vertice si perde fra le nuvolette dei Beati?

Ecco, la labirintica macchina pubblica e privata italiana che consente anche questo: la carità che diventa business esentasse e i poveri la merce di scambio per ripulirsi l’anima da irrilevanti sensi di colpa e saziare la fame di roba e potere di un popolo così pio e caritatevole. Perché il pubblico governa solo la punta dell’iceberg, un territorio apparentemente limitato e gestibile, mentre il resto viene “appaltato” al volontariato che in gran parte legato a ordini e organizzazioni parte, più o meno strettamente, della Santa Chiesa Pietosa e Bulimica. E non si facciano domande, non si metta in dubbio la bontà di organizzazioni che di questo vivono e prosperano appropriandosi del ruolo di gestire le “offerte” mutando il dono in vincolo, e gli “erogatori del servizio” in soggetti di potere, piantati lì nel mondo di mezzo posto fra chiesa e potere politico, fra spiritualità e affari.

Tutti sanno o almeno percepiscono, ma rimuovono per non insozzarsi l’anima. Comodo, no? Perché macchiarsi del dubbio quando la bontà è così certa e santa e definitiva e soprattutto così comoda per chi vuole mondarsi dei propri peccati senza sporcarsi le mani?

Perfino nei riti della quotidianità del popolo dei camminanti, come mettersi in fila per andare a una mensa, il ricatto “facoltativo”, ma talmente evidente da portar su, ancora, l’acido alla gola, si materializza. Con il bigliettino per accedere all’ennesima mensa ti arriva in mano anche il “santino” con tanto di foto, numero e nome, del candidato “amico” da votare alle prossime elezioni. E poco importa che il tizio in posa sorridente che ti squadra dal cartoncino sia o meno un perfetto sconosciuto. «Mi raccomando, vai a votare, è uno dei nostri, un nostro amico », dice benevolo il custode chiarendo, se ce ne a stato bisogno, quale sia il prezzo di un piatto di pasta scotta: la scelta fra il digiuno e una pietanza insipida, che neanche al 29 di via della Longara2 si azzarderebbero a distribuire a chi sconta una pena

I poveri sono una ricchezza, sono potere, immagine e specchio deformante della nostra pasciuta società. E la solidarietà non raramente si trasforma in industria. Non sempre, ma nella sua istituzionalizzazione si.

Ed è da questa piega della Città Eterna che parte questa storia. Nel bene e nel male. Quello che è, e un vaffanculo a chi è talmente pio da negare l’evidenza.

Questa è la scena, gli attori sono dietro le quinte ad aspettare il momento del loro ingresso, la sala è buia e il pubblico attende: è ora di iniziare.

  1. Talking Heads in Houses In Motion.

2 L’l’indirizzo del carcere di Regina Coeli

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