L’occasione mancata che stiamo ancora pagando

Genova 2001. Il G8 di sangue. Forse è stato quello il punto di non ritorno di un trauma autoinferto che ha frantumato e marginalizzato la sinistra italiana. Si era costruito in quegli anni un movimento di dimensioni impressionanti che metteva in relazione aree culturali diverse, certo, ma comunque coese su un progetto di società e di economia non semplicemente anti-liberista. L’emersione di un pezzo enorme della società che rifiutava la guerra, puntava su un modello economico sostenibile, che immaginava e progettava una società solidale, plurale, moderna. Un movimento
che sulla carta rappresentava almeno il 16 percento dell’elettorato italiano. E che si stava consolidando e che ricercava anche un modello di organizzazione collettiva unendo il mondo dell’associazionismo cattolico e ambientalista, i movimenti per i diritti civili e per i beni comuni, il sindacalismo della Fiom e delle organizzazioni di base, i movimenti che nascevano nelle aree ad alto rischio ambientale e sanitario, la sinistra rappresentata da Rifondazione comunista e dai Verdi, fino ad arrivare alla rete, all’epoca consistente, dei centri sociali. Un movimento che aveva già al momento della sua nascita una serie impressionante di relazioni internazionali e contemporaneamente un progetto chiaro sulla politica e l’economia italiana. E che venne represso nella maniera più violenta possibile, come hanno ampiamente dimostrato processi e condanne anche in sede di istituzioni internazionali.

Ma è all’alba di quelle giornate di violenza che si è materializzato il cortocircuito. Perché, è necessario ricordarlo esplicitamente, non sarebbe andata così se la Cgil e i Ds (che dopo pochi anni si sciolsero nel Pd) non avessero all’ultimo momento annunciato che non avrebbero partecipato alle manifestazioni. E quello sfilarsi dalle manifestazioni fu letto come una sorta di lasciapassare per arrivare alle maniere forti.
Chi ha vissuto quei giorni si ricorda bene quello che è accaduto in quelle ore. Gli scontri cercati e puntualmente esplosi; i più violenti, in gran parte non italiani, lasciati liberi di agire e i pestaggi ripetuti su persone già a terra ferite, le cariche su migliaia di persone inermi e pacifiche, la follia del primo “contatto” violento a via Tolemaide che come coda portò alla morte di Carlo Giuliani, e poi le cariche feroci e insensate del giorno successivo, lo scempio di pestaggi di gente già a terra, e quelle centinaia e centinaia di persone inermi che si gettavano in mare per non essere massacrate da ondate di cariche ripetute più volte anche quando non c’era alcuna ragione di metterle in essere; e poi le torture a Bolzaneto, il massacro della Diaz. La “macelleria messicana”. Cos’altro potevano fare per traumatizzare e terrorizzare definitivamente centinaia di migliaia di persone salite a Genova per dire che “un altro mondo è possibile”? Oggi tutti criticano gli effetti della globalizzazione e del neoliberismo sfrenato, allora per negarne l’aberrazione hanno macchiato di sangue le strade di un’intera città.
Ci sono state anche le responsabilità di parte di chi ha manifestato, per esempio gli errori di gestione di Rifondazione e dei Cobas, che non sono riusciti a capire che si stava cercando il bagno di sangue e che hanno sottovalutato sia le infiltrazioni sia l’assoluta permeabilità di alcuni piccoli e marginali settori che una gestione nonviolenta della piazza non l’hanno mai digerita: catarsi dello scontro di piazza. Ma sono stati errori, non ricerca dello scontro di piazza da parte del movimento. La responsabilità politica di un pezzo enorme della sinistra come la Cgil e i Ds di essersi chiamati fuori dalla manifestazione all’ultimo minuto è una ferita tuttora sanguinante e che non viene messa in ombra da quelli che sono andati in piazza per saldare conti e cercare presunte egemonie all’interno della sinistra più radicale. Errori clamorosi, gravissimi, personali ancor prima che collettivi, che la sinistra tutta ha pagato e continua a pagare.
Eccola la prima enorme e disastrosa scintilla che ha innescato il cortocircuito che ha condotto alla disfatta elettorale del 2018. Ecco cosa ha portato all’emergere del M5S, che ha letteralmente divorato temi e movimenti in un pastone populista buono per ogni stagione, dove destra e sinistra sono termini intercambiabili e l’unica ragione è quella dei capi (e dei guru). Cinque anni dopo quel titolo de «il manifesto», che sotto un enorme sole sorridente strillava “buongiorno” salutando la vittoria dell’Ulivo, le speranze di “un’altra Italia è possibile” sono finite contro il muro di un lager
improvvisato a Bolzaneto.
Uno dei più grandi movimenti collettivi nati a cavallo di due millenni è stato represso ancora prima che diventasse reale forza politica elettorale in nome del bipolarismo forzato di un Paese che è nato e ancora si fonda su una Costituzione che vide la luce, e quindi fu costruita, su un sistema proporzionale, che puntava a tutelare tutti, anche il dissenso, e non solo il più forte.

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