Siamo stati così…

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La mia amica Anna Catania da qualche tempo tira fuori vecchie fotografie. Segni del tempo che  è passato, memoria di chi eravamo…. Oggi ha estratto dal suo archivio questo scatto, Ci sono Luca, sullo sfondo Alessandra, poi Stefano, un altro ragazzo di cui non ricordo il nome. Poi Giampiero e io. E allora dal mio archivio tiro fuori questa pagina. Per rivendicare che un giorno siamo stati così.

Tu prendi una bici verde di un verde ramarro con la catena che schizza via come una biscia appena la pedalata diventa incerta. Senza parafanghi, la sella bassa che così la fai impennare come il cavallo di Tiger jack quando incontra un serpente a sonagli. I freni non servono perché frenare è da cagasotto. E poi prendi il coraggio che a otto anni ce ne hai una valigia piena, ma che dico, un baule grande come quello nella soffitta di nonno Armando. E poi passa per il buco nella rete, scivola via fino alla strada di fango secco e sassi e decolla, via, lampo, verso il bosco, il canion, il castello. Giù. Con i sassi che schizzano via da sotto le ruote ballando e ricadono e scivolano via al ritmo di un tango. Ta ta, ta ta ta, ta ta, ta ta ta… Eccetera eccetera. E ancora, urla di terrore e di gioia alla curva giù in fondo alla discesa arando il mondo con la ruota posteriore. E vola, rotola, ridi e sputa polvere. E via fino all’ombra degli alberi che costeggiano la marana.

Tu prendi tutto questo e mettilo nel mezzo di un pomeriggio di fine estate. E al centro metti me. E la mia vita. E i miei otto anni che sono quasi nove. Cosi. A ritmo di tango.

A ritmo di tango va la vita. Come la prendi la prendi. Mentre dalla strada sterrata di fango secco e sassi ti ritrovi al muretto con gli amici. E sei già grande e sei già segnato e la vita ti porta via, giorno dopo giorno, un pezzetto di sogno, un pezzo di illusioni, qualche frammento di speranza.

E allora tu prendi. Quel muscolo che ti scatta sulla guancia mentre aspetti la carica della polizia. Che sarà. Che sai è lì pronta a partire. Aspetti solo che il responsabile della piazza si metta la fascia tricolore. E c’era la tromba, allora. Si chiamava la carica con un bello squillo e dagli addosso a quei comunisti pezzi di merda. Terroristi. Terroristi. Terroristi. Ta ta, ta ta ta, ta ta, ta ta ta… Eccetera eccetera. Sempre a ritmo di tango, mentre soffochi correndo e ti infili in un portone. Il fumo che ti insegue e Giampiero che ride. E hai paura, di quelle paure paurose che non ti venivano neanche quando scendevi le scale e dovevi passare davanti alla porta di Furfaro. E poco importava che dopo quella notte che notte i Furfaro non ci fossero più. Non importava no. A otto anni il tempo è una roba che ruota, si muove e corre avanti per poi scivolare indietro. E va bene così.

E allora tu prendi quel sasso. Non quello liscio che brillava sulla riva della marana, con una patina di fango e alghe microscopiche a renderlo viscido. Prendi quel sasso di città in guerra, ruvido, feroce, nero, spigoloso.

Guarda davanti a te, gli occhi due fessure e poi due passi avanti e lo lanci. Lo lanci, cazzo. E lo prendi quel celerino. Cazzo se lo prendi. A una gamba. E cade. Cade fra gli scarponi degli altri in divisa che corrono verso di te.

E tu prendi tutto il fiato che ti rimane e corri, scappa via. Scappa come non sei scappato quando è arrivato il primo manrovescio. Come non scappavi quando offrivi la schiena al bastone offrendo dove c’era meno carne sulle ossa. Così che la pelle si spaccasse. E il sangue fermasse il colpo successivo. Come succedeva sempre. Senza dolore, perché il dolore lo mettevi nella scatola che conservavi sotto il letto dove La Ballata era salata più del mare salato che ti aveva visto nudo davanti alle stelle. La notte che la luna batteva l’ultima linea della cresta di un’onda che placida diventava luce spalmandosi sulla sabbia.

Corto si era allungato la linea della vita sul palmo della mano con un rasoio. Ci hai provato anche tu, con una lama, a vedere il fondo della vita affondandola a tagliare la pelle morbida sotto un’ascella fissandoti nello specchio. E a dieci anni sei così, un coglione che si taglia confondendo il sangue con il coraggio, un grido d’aiuto con la pelle che diventa pietra e il sangue che si fa crosta, corteccia, brace.

E allora tu prendi lo sguardo del tuo amico, Giampiero. Che dalla forcella di due rami del leccio ti guarda arrivare, quasi rotolando, te e il tuo lampo verde. Che fai, sali? E sali, un piede che fa leva, le braccia che si aggrappano e il ginocchio che si sbuccia scavalcando un ramo teso. Nell’aria. Ridi. Facendoti specchio nella risata che neanche quei ricci senza forma riescono a nascondere. Si vola? Oggi è il giorno che impariamo a volare? Non lo so, amico mio. La morte non è un gioco accettabile alla fine dell’estate.

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