Morin e la guerra, quelle voci che vengono ignorate

Pubblico una recente intervista a Edgar Morin che mie era completamente sfuggita , Da “La Lettura” del 19 febbraio 23

«La guerra in Ucraina, come una tragica madeleine, mi ha fatto ritornare in mente tutte le guerre che, direttamente o indirettamente, ho vissuto. Un percorso à rebours che mi ha permesso di capire cose su cui prima non avevo riflettuto in profondità: persino nel conflitto dove il bene e il male sono più evidenti, ho potuto constatare che, in ogni caso, nel bene c’è sempre la presenza del male. In questo viaggio nel passato, il ricordo mi ha permesso, retrospettivamente, di vedere crimini che non abbiamo voluto vedere e interessi, talvolta occulti, che hanno frenato i processi di pace»: Edgar Morin, una delle voci più autorevoli del nostro tempo, ha appena pubblicato un saggio — Di guerra in guerra. Dal 1940 all’Ucraina invasa (prefazione di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Editore) — in cui racconta tutti i conflitti che ha vissuto.

Una lunga vita — il prossimo 8 luglio compirà centodue anni — che gli ha permesso di essere testimone delle guerre che dal Novecento a oggi hanno funestato e funestano l’umanità: la Seconda guerra mondiale, la guerra d’Algeria, le guerre di Jugoslavia, la guerra in Iraq, il conflitto tra israeliani e palestinesi e, oggi, la guerra in Ucraina. Così — nelle vesti del proustiano Swann che si abbandona ai ricordi, in questo caso, purtroppo tragici — Morin illumina, con le sue preziose riflessioni e con la sua contagiosa passione, gli aspetti più bui e drammatici degli scontri armati tra popoli.

Com’è nata l’idea di raccontare le guerre che ha vissuto?

«Quando ho visto le immagini di distruzione in Ucraina e quando ho iniziato ad analizzare come la stampa e i mezzi di comunicazione diffondevano le notizie — penso, per esempio, a ciò che è stato detto dei media russi e ciò che non è stato detto dei media ucraini — non ho potuto fare a meno di riflettere sugli avvenimenti che avevo vissuto durante la Seconda guerra mondiale. In primo luogo, i bombardamenti sulle città dell’Ucraina mi hanno fatto pensare ai massicci bombardamenti degli Alleati sulle grandi città tedesche. Scene di distruzione e di morte di cui, all’epoca, non riuscivo a cogliere la vera essenza. Mi facevo forza dicendo a me stesso: “È spaventoso, ma è la guerra”. Era evidente che non avevo gli strumenti per riflettere e capire. Nel conflitto in Ucraina ho rivisto scene e luoghi della guerra mondiale. E ho preso coscienza di questo: anche il conflitto armato condotto contro ciò che c’era di peggio, contro il nazismo, contro gli aguzzini che avevano programmato il genocidio totale degli ebrei, nascondeva al suo interno qualcosa di disumano. In ogni conflitto, per quanto possa essere chiaro distinguere il bene dal male, anche nel bene c’è del male. Oggi invochiamo giustamente il “crimine di guerra” quando una città ucraina viene rasa al suolo ma, analogamente, avremmo dovuto invocarlo quando gli anglo-americani bombardarono Dresda. Non c’era nessun vero obiettivo militare… Solo palazzi abitati da cittadini indifesi».

Lei ricorda le sue speranze, poi deluse, per il futuro dell’Unione Sovietica che, all’epoca, era un alleato nella lotta al nazismo.

«È vero: speravo, come tanti, che la sconfitta del nazismo avrebbe spinto l’Urss a riconsiderare il suo passato e a costruire una civiltà universale e fraterna. Abbiamo visto tutti, però, che nulla di questo si è realizzato. Durante la guerra, di fatto, eravamo alleati con una dittatura totalitaria contro un’altra dittatura, senza dubbio di gran lunga peggiore. Vasilij Grossman ha racchiuso in una frase una profonda verità: “Stalingrado è stata la più grande vittoria e la più grande sconfitta dell’umanità”. Questo mi fa pensare a tutte le menzogne di guerra».

La menzogna, nella sua analisi, sembra una parole-chiave di ogni guerra…

«La menzogna è uno degli aspetti più odiosi della propaganda bellica. Attribuire al nemico i propri crimini, per esempio, è la maniera più disgustosa per occultare la verità. Per questo ho pensato all’Unione Sovietica. Nel 1940, su ordine di Stalin, furono massacrati a Katyn’ migliaia di ufficiali e soldati polacchi. Le fosse comuni, scoperte dai tedeschi nel 1943, furono indicate come prova della carneficina. Ma l’Urss montò una campagna per attribuire l’eccidio ai nazisti. Quando nel 1944 organizzai una mostra intitolata Crimini hitleriani, l’ambasciata sovietica mi inviò un dossier in cui molti contadini dichiaravano di avere visto i tedeschi uccidere i soldati. Solo nel 1956, in occasione di un mio viaggio in Polonia, alcuni amici di Varsavia mi informarono delle menzogne sovietiche che, dopo l’avvento di Gorbaciov, furono confermate dalla pubblicazione del documento in cui Stalin dava l’ordine dell’eccidio. Lo stesso discorso vale per le accuse di guerra batteriologica mosse dalla Cina agli Stati Uniti durante il conflitto di Corea: un’accusa costruita a tavolino che poi fu smentita. Questi eventi mi hanno spinto a riconsiderare criticamente molte cose che vengono spacciate per verità e che non lo sono».

La menzogna nella sua analisi è figlia dell’isteria di guerra…

«Cosa si intende per isteria? Quando i sintomi sembrano oggettivi, ma sono soggettivi. È un dolore fisico che proviene da una perturbazione interiore dell’animo. È la trasformazione di qualcosa che, pur essendo interna, viene percepita come esterna. Già nella Prima guerra mondiale i sintomi dell’isteria sono evidenti: l’odio per il nemico, la volontà di criminalizzarlo, la certezza che fosse responsabile di tutti i crimini, la glorificazione delle proprie azioni, l’occultamento delle atrocità del conflitto. La costruzione propagandistica di una realtà in cui si esalta il proprio punto di vista e si ignora totalmente quello dell’avversario. Durante l’occupazione tedesca, Radio Londra era per noi una fonte alternativa rispetto alle notizie diffuse dalla stampa di regime. Mi ha colpito scoprire che durante la Prima guerra mondiale gli inglesi, al contrario dei francesi, pubblicavano i comunicati militari sia degli Alleati che dei nemici. Un’eccezione, perché la pluralità dell’informazione scompare del tutto in tempo di guerra».

Un’isteria che provoca il diffuso atteggiamento di vedere spie ovunque.

«Ho chiamato questo fenomeno “spionite”. Dopo il disastro del 1940, mi rifugiai a Tolosa. In Place du Capitole osservavo una mappa per studiare l’avanzata delle truppe tedesche. Un bravo cittadino si avvicina e mi chiede: “Sono forti, vero?”. Rispondo: “No, siamo deboli noi”. E lui: “Ecco, lei non è una spia. Oggi ho fatto questa domanda a tre persone, che mi hanno risposto: sì, sono forti. Erano spioni”. Questo mi pare, in chiave tragicomica, un caso eloquente di “spionite”».

C’è un ricordo personale della guerra che non ha trovato posto nel libro?

«Ero a Sarajevo, durante l’assedio; i serbi sulle colline sparavano dappertutto. Ricordo di avere raggiunto la città con un aereo dell’Onu, di avere indossato un giubbotto antiproiettile, di essere salito su un carro blindato per attraversare le zone del conflitto. Ho vissuto in una città assediata, in cui i bosniaci e alcuni serbi (quelli democratici) resistevano e si occupavano della pubblicazione di un giornale. Mi colpiva il fatto che popoli accomunati dalla medesima origine e lingua (sebbene diversi per esperienze storiche), popoli che vivevano nello stesso Paese e praticavano matrimoni misti, popoli che tifavano per la stessa squadra di calcio, in quel momento nutrivano un reciproco odio implacabile. Proprio in una città come Sarajevo — in cui musulmani, cristiani ed ebrei avevano convissuto pacificamente — a causa di una guerra insensata si erano spezzati i fili che avevano legato famiglie e individui. Fu allora che mi colpì un episodio: un abitante di Sarajevo m’indicò un cecchino serbo e mi disse che prima della guerra era il suo migliore amico, ma che ora gli sparava addosso. Un odio tra militari, tra popoli, tra fratelli. Un odio che rende stupidi e ciechi. Un odio alimentato dall’isteria di guerra, dalla menzogna e dalla “spionite”. Ho scritto questo libro per condividere con i concittadini europei la lezione delle guerre: le cose non sono mai semplici e bisogna avere il coraggio di denunciare il male anche quando si nasconde nel bene».

Poi c’è il tentativo di cancellare l’avversario, il suo passato, la sua cultura.

«Le guerre hanno ottenuto in alcuni casi larghi consensi popolari, penso alla Germania e alla Francia; in altri meno. Però assieme alle adesioni vanno considerati i dissensi. In Germania, anche se il popolo tedesco venne trascinato in una folle avventura, ci fu un’opposizione silenziosa. Ora in Russia, accanto a coloro che si sono lasciati contagiare dal delirio bellico, esiste un gruppo intellettuale, la parte più lucida della società, che si oppone alla guerra. Ma ciò che mi sembra grave è la deliberata volontà di distruggere l’intera cultura di un popolo. Benché vittime di un’aggressione, trovo molto grave l’ostracismo decretato dalle autorità ucraine alla letteratura, alla musica, alla cultura russa. Perché vietare un patrimonio che appartiene all’umanità? Senza contare che, spesso, alcuni grandi scrittori, artisti e musicisti hanno criticato l’autorità politica (zarista o staliniana). Cosa c’è di ignobile in Tolstoj o in Cajkovskij o in Cechov o in Solženitsyn? L’odio crea una stupida cecità».

Purtroppo anche in Europa si sono registrati casi di intolleranza.

«Certo: in Francia è stato imposto a un magnifico direttore russo dell’orchestra sinfonica di Tolosa di prendere posizione sull’invasione. Lui ha rifiutato di approvare o condannare Putin e si è ritirato. Anche la polemica sulla partecipazione degli atleti russi ai giochi olimpici è paradossale: le Olimpiadi nacquero per riannodare i fili spezzati dalle guerre».

Lei sostiene che la guerra in Ucraina è anche una guerra tra due imperialismi: quello russo e quello americano…

«Mi pare evidente. Tanto più che l’imperialismo americano s’è manifestato nella storia delle relazioni tra Russia e Usa anche dopo la caduta dell’Urss, quando perfino Putin si recò a Berlino per dire: “Noi siamo europei”. Gli americani hanno voluto contenere l’influenza russa. Il ruolo di Washington è completamente compromesso: non possiamo dimenticare le bugie di guerra (come in Iraq), la violazione delle leggi internazionali, il sostegno a dittature sanguinarie in America Latina. Certo: in America c’è la democrazia, in Russia il dispotismo. Ma questo non cancella la sua vocazione imperialista, colonialista e perfino genocida».

A chi interessa non fare avanzare i negoziati di pace in Ucraina?

«Innanzitutto, alle industrie della guerra. Poi a chi pensa che bisogna indebolire la Russia nel lungo periodo. E, infine, a chi ritiene che un compromesso non sia possibile, dal momento che la Russia resterà sempre un pericolo per i suoi vicini. Dappertutto (negli Usa, in Europa, in Russia) ci sono numerose forze che spingono affinché la guerra continui, pensando che bisogna ottenere la vittoria a tutti i costi. Questa radicalizzazione alza i toni e rischia di allargare il conflitto».

Una radicalizzazione che può deflagrare nella Terza guerra mondiale?

«Difendere il proprio Paese è normale, ma fino a che punto? Cosa significa “vittoria”? Il problema è che nessuno pensa veramente alla pace. Siamo coinvolti in una escalation che rischia di allargare questa guerra, per fortuna ancora limitata dal punto di vista territoriale. Non sappiamo dove arriverà, non sappiamo nemmeno se sarà possibile evitare la follia nucleare. Ma dobbiamo fare attenzione: c’è una crisi ecologica nel pianeta, una crisi economica che peggiorerà e creerà gravissime carestie, soprattutto in Africa. Dopo la pandemia, tutte queste crisi assieme aggraveranno la guerra e ne saranno aggravate».

Nel libro spende molte pagine sulla necessità di promuovere la pace e isolare chi grida «fino alla fine».

«Mi sorprende che oggi poche voci si levino a favore della pace. Parlare di negoziati e di accordi, per coloro che — lontani dal conflitto — lo incoraggiano con tutti i mezzi, viene considerato una ignominiosa capitolazione. Ma dove porterà la logica del «fino alla fine»? Sarà come un tragico boomerang che, una volta lanciato, si ritorcerà contro i popoli in guerra e contro l’umanità intera».

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